Tiribocchi: "Ho rifiutato l’Inter e me ne sono pentito. Spalletti mi batteva, ma a braccio di ferro"

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L’ex attaccante adesso fa il commentatore in tv: "La Lazio mi scaricò, a Benevento sono diventato il Tir. Moratti mi voleva, ebbi paura. Galliani mi chiese la maglia e gli allenamenti di Conte all'Atalanta erano degni dei Marines"

Francesco Pietrella

Giornalista

16 dicembre - 07:34 - MILANO

Il clacson del “Tir” risuona forte in tutta la Brianza dopo aver tenuto sveglie diverse piazze sparse in tutta Italia: "Dopo sei anni da coordinatore delle società affiliate al Monza, ora alleno il Città di Brugherio, in Seconda categoria". Quello che Simone Tiribocchi, 47 anni, circa 150 gol tra i pro’ di cui 39 in Serie A, definisce "calcio vero, autentico". Il “Tir” risponde mentre è in macchina con suo figlio, a cui nel 2018 scrisse una sorta di lettera.

"Spero stia alla larga da questo ambiente di m…", disse 7 anni fa. Come mai quello sfogo?

"Non è cambiato nulla nel calcio giovanile. C’è ancora l’agente che porta i soldi per far giocare un suo assistito, chi paga per allenare e via così. Alla fine, mio figlio ha 13 anni e si diverte nei dilettanti. Quando perde o sta in panchina mette il muso. Come suo padre".

La chiamavano 'brontolone'. 

"Sartori, al Chievo. Lo diceva a chiunque. 'Simone è bravo, ma quando sta in panchina…'. Forse mi ha penalizzato, ma quando uno non gioca deve arrabbiarsi. In un mondo dove la chiacchiera corre più della palla, comunque, Sartori si distingue per competenza e talento".

Lei si è sempre definito “timido, introverso”, come mai?

"Sono stato un cinghialone silenzioso. Debuttai in A col Torino A il 9 settembre 2001, contro il Brescia di Baggio: non ebbi il coraggio di andargli a chiedere la maglia. Fino ai 26-27 anni sono stato così. Gli esami mi mettevano ansia, stress. Per questo rifiutai l’Inter a gennaio 2006". 

E infatti disse: "Sono stato un coglione". Conferma?

"Sì. All’Inter serviva una punta per la Coppa Italia. Un paio erano in Coppa d’Africa, altri erano infortunati. Ho avuto paura. E Moratti stravedeva per me. A Campedelli e Percassi diceva: 'Voi ne avete uno forte: Tiribocchi'. Stesso discorso per il figlio di Galliani. Dopo un Milan-Atalanta a San Siro il magazziniere mi fermò: 'Il direttore vuole la tua maglia'. 'Chi?'. 'Galliani'. Me l’ha ricordato a Monza". 

Si sente un calciatore "del popolo"?

"Mi ci rivedo. Mi dicono ancora: 'Oggi avresti segnato 30 gol, saresti andato in Nazionale e così via'. Non so. Sono sempre stato poco mediatico".

Dov’è iniziato il viaggio del Tir?

"A Fiumicino, giocando per strada o in spiaggia. D’estate davo una mano ai bagnini a portare i lettini. Forse se non avessi giocato a calcio avrei fatto quello, o magari il benzinaio. Amavo l’odore della benzina. Ho giocato alla Lazio per anni, poi da un giorno all’altro mi mandarono via e a 16 anni mi ritrovai senza squadra. Per Mimmo Caso non ero pronto. Anni dopo disse che ero stato uno dei suoi più grandi rimpianti". 

Com’è stato giocare alla Lazio da romanista?

"In realtà non ho mai sentito una rivalità. Quando facevo il raccattapalle vedevo da vicino i campioni di Cragnotti e dicevo “wow, che fenomeni”. Giocavo con l’indianino giallorosso al collo, ma ho sempre portato rispetto. E nel 2006 segnai due gol a Peruzzi contro la Lazio: li cercavo da tanto". 

Ha mai pensato “adesso smetto?”

"Prima di firmare col Toro, nel 1996, ma mio padre mi ha spinto ad andare avanti. L’anno prima avevo preso una stanza con un altro compagno a Pistoia. Debuttai in B senza prendere un euro. Dopo feci un mese di prova a Napoli, ma niente, così andai al Toro e venni preso. Il tutto dopo un provino così così per la solita ansia dell’esame...". 

Da lì in poi una lunga gavetta. 

"Savoia, Siena, Benevento, dove nasce il soprannome “Tir”, e infine Ancona. Arrivai a gennaio insieme a… Spalletti e lo feci subito arrabbiare. Colpa di una serata passata in discoteca che mi costò un problema alla schiena. Ma gli devo molto: era già un predestinato. E la sera, in albergo, ti sfidava a braccio di ferro. Io non sono un piccoletto eh, ma lui mi sfondò lo stesso. Ebbi un dolore al polso per giorni».

A proposito di sergenti. Conte all’Atalanta?

"I suoi allenamenti erano degni dei Marines. Gian Piero Ventrone ci distruggeva. Una volta vomitai. Dovevi lavorare al di sopra del 90% delle tue capacità per un tot di tempo. Purtroppo fu esonerato dopo 13 partite, ma fisicamente volavamo". 

Dispiace essere arrivato in A a “soli” a 26 anni?

"Un po’ sì, anche se il Chievo cambiò la mia mentalità. Con Pillon arrivammo sesti, poi grazie a Calciopoli finimmo quarti e partecipammo ai preliminari di Champions contro il Levski Sofia. Gruppi top. Cito Amauri come il più forte di tutti". 

L’exploit a Lecce: 42 gol in due anni e mezzo.

"Questione di incastri: fui pagato 3 milioni, il ds Angelozzi e il presidente Semeraro mi volevano. E in più c’era Papadopulo, che stravedeva per me. All’inizio fischi, ma la promozione in A fu top". 

In carriera è stato sottovalutato?

"Un po’ è stata colpa mia, un po’ è sì, valevo qualcosina in più. Mi sarebbe piaciuto giocare in una big e arrivarci con la mentalità di Lecce". 

La follia più grande vista in uno spogliatoio?

"A Benevento uno spalmò la cacca sulla maniglia della porta, mentre al Chievo Baronio trasformò il letto in una bara con tanto di croce sulle coperte».

E un “vaffa” chi se lo merita?

"Giovanni Lopez, mio ex allenatore al Vicenza. Mi definì una mela marcia. A due giorni dall’inizio del ritiro mi fece chiamare per dirmi di cercare una squadra oppure di smettere. E ho smesso". 

E se suo figlio vorrà fare il calciatore?

"Deve armarsi di sana pazienza. E divertirsi".

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