Belinelli: "Il basket non mi manca, un sogno chiudere vincendo a casa mia. Kobe, il mio eroe"

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L'ex cestista, oggi brand ambassador di Sky Sport, si racconta: "Obama mi disse che mancavo ai suoi Bulls, con Micheal Jordan diventavo di pietra. È il mio idolo d'infanzia"

Lorenzo Cascini

Giornalista

18 dicembre 2025 (modifica alle 08:16) - MILANO

Ennio Flaiano diceva che nella vita i giorni indimenticabili di un uomo sono cinque o sei in tutto, gli altri fanno volume. Marco Belinelli il primo l’ha vissuto nel 2006, quando con la nazionale italiana segnò 25 punti contro gli Usa di LeBron James e Carmelo Anthony. Poi è arrivata l’Nba, la vittoria dell’anello e tredici stagioni fatte di gioie e grandi soddisfazioni. “Anche se sono le critiche ad avermi spinto a fare meglio. Ascoltavo e incassavo, credo con il tempo di averli zittiti tutti…”

Marco Belinelli, partiamo dalla fine. Quest’estate ha annunciato il ritiro dal basket a 39 anni. È stata una scelta sua?

“Penso che un giocatore debba anche essere consapevole del suo stato fisico e mentale. Io ho dato tutto me stesso, amando alla follia questo sport. Avevo dolori e pensavo fosse arrivato il momento di dire basta”.

Oggi è brand ambassador di Sky Sport, che effetto le fa guardare le partite dal divano?

“È strano, certo. Però sono felice così. La programmazione è ricca e sarà divertente godermela in un ruolo per me nuovo”.

Il basket le manca?

“No, almeno per ora. Poi, quando la stagione entrerà nel vivo, magari, ci sarà un po’ di nostalgia. Ma per adesso no”.

Nemmeno da fare due tiri a canestro con gli amici?

“Ci crede se le dico che non ho più preso in mano un pallone? Penso a godermi la famiglia, non mi viene voglia di andare a giocare”.

Ha chiuso vincendo con la Virtus, a casa sua. Se lo avesse potuto scrivere, avrebbe immaginato un finale così bello?

"Sinceramente no, è stato stupendo oltre ogni sogno. Mi brillano gli occhi solo a parlarne. Festeggiare con le mie figlie e mia moglie, tra la mia gente, non ha prezzo”.

Iniziamo il viaggio nei ricordi. Come nasce la passione per il basket?

“Grazie a mio fratello più grande, passavo le giornate con lui a guardare le partite. Impazzivamo per Michael Jordan, quante Vhs ho divorato…”

Poi, tanti anni, dopo Jordan l’ha avuto come presidente in Nba a Charlotte. Un ricordo?

"Mi squilla il telefono. Rispondo. Dall’altra parte sento: ‘Ciao Marco, sono Michael. Ti abbiamo cercato a lungo, sei il giocatore che volevamo’. Una cosa da non credere. Ma su Jordan ho un altro flash”.

Prego.

“Lo incontrai qualche anno prima a un evento Nike, giusto il tempo di un saluto. E mi è rimasta impressa la sua mano gigantesca. Però, in generale, ci ho sempre parlato poco. È il mio idolo d’infanzia, davanti a lui diventavo di pietra”.

A proposito di Nba, c’è stato un momento preciso in cui ha capito di poter diventare un giocatore in grado di competere a quei livelli?

“La consapevolezza vera l’ho avuta quando sono andato agli Hornets. Prima avevo fatto un po’ fatica. E c’era tanta gente che criticava. ‘Non sa difendere’, ‘non è Nba’ e così via. Credo di averli zittiti un po’ tutti con il tempo…”

In pochi avrebbero scommesso su di lei all’epoca…

“C’era Bargnani che era al top e Gallinari, talento in ascesa. E poi c’ero io, quello che non c’entrava niente. E dopo i primi due anni difficili in molti non mi consideravano all’altezza. Le critiche, però, mi hanno spinto a fare meglio”.

Citava lei gli Hornets. Quanto è stato importante nel suo percorso un compagno come Chris Paul?

“Fondamentale direi. In generale a New Orleans hanno creduto in me, dandomi spazio e fiducia. Chris mi diceva ‘Quando ti passo la palla, tu tira’, era sicuro che potessi fare sempre canestro”.

Lei a oggi è l’unico italiano ad aver vinto l’anello Nba, nel 2014 con gli Spurs.

“Si, un momento unico. Uno di quelli che ti cambiano la vita, in cui ti vengono in mente tutti i sacrifici fatti per arrivare fin lì”.

Un aneddoto legato a quella vittoria? Magari nei festeggiamenti?

“L’incontro con Obama. Io pensavo non sapesse nemmeno chi fossi. E invece…”

Invece?

“Mi accolse e mi disse ‘quanto manchi ai miei Bulls’. Eravamo lì per la premiazione dopo l’anello. Fu bellissimo”.

Lei arrivò negli Stati Uniti che era molto giovane. Come è stato l’impatto?

“Tosto, ma sono diventato uomo. Sono andato ai Warriors e all’inizio non avevo nemmeno idea di quale fosse la città in cui giocavano. Poi non sapevo fare un bancomat, non avevo la patente…”

Una stranezza che le viene in mente se pensa a quei tempi?

“Negli Stati Uniti, per strada, girano a destra anche se è rosso. Per me era inconcepibile. Era come essere stato catapultato in un altro mondo. Piano piano, però, mi sono adattato”.

Di lei hanno sempre esaltato la sua abnegazione. Anche nel basket l’ossessione è più importante del talento?

“Sì, penso sia stata quella la chiave. Non so se è più importante in generale, io parlo per me. Sono migliorato molto nel tempo, ma sono stato prima di tutto un gran lavoratore. Credo che la mia voglia di dimostrare il mio valore abbia fatto la differenza”.

Però, Kobe disse di lei che era uno dei più ostici da affrontare in campo.

“Parlavamo in italiano, ho avuto l’onore di affrontarlo, di conoscerlo davvero, di mangiare con lui e passare serate insieme. Sono ricordi che porterò sempre con me. Le sue parole nei miei confronti mi rendono orgoglioso. Rimarrà il mio eroe in eterno”.

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